17 apr 2009

IN MOSTRA CADAVERI CINESI

A Parigi è in corso una ben strana mostra: si tratta di vedere, scrutare, rimirare il corpo umano, organo per organo… direttamente utilizzando persone morte. I cadaveri di 17 giovani cinesi, privati di pelle, di organi, e messi in posizioni da “vita quotidiana”, sono in mostra a Parigi nell’ambito di una mostra “Our body, A corps ouvert“. Ma non in un ambito dedicato agli studenti di medicina, ma in una mostra aperta al pubblico, con “composizioni” particolarmente artistiche: cadaveri messi in posizioni spettacolari (uno che corre, uno che tira con l’arco), come se invece che di poveri morti si trattasse di statue di cera o di bronzo…
La mostra ha suscitato l’attenzione allarmata di molti. Due organizzazioni per i diritti umani (”Ensamble contre la Peine de Morte” e “Solidarité Chine”) si domandano addirittura la provenienza dei cadaveri in un comunicato stampa agghiacciante. Vari intellettuali si sono dichiarati contro la mostra, ma anche il Comitato Francese di Bioetica si era pronunciato contrariato, paragonandola a puro voyeurismo che “induceva a uno sguardo tecnicistico sul corpo umano”.
La mostra ci porta a due riflessioni: la prima sul rispetto del corpo umano: non si dovrebbe usare il corpo di un defunto per mostrarlo al pubblico: il diritto alla riservatezza e al pudore esiste ben oltre la morte, almeno nella nostra cultura occidentale. In Francia si domandano come avrebbero reagito i media parigini se i corpi di 17 giovani francesi morti fossero stati esposti al pubblico all’altro capo del mondo. Inoltre, mettere i cadaveri in posizione innaturale per un morto, o addirittura farne delle sezionatore artistiche, come si vede nel sito della mostra, desta un allarme verso la “reificazione” possibile del corpo umano, il quale anche dopo la morte non è mai pari ad un ammasso di ossa e cartilagine, come dice il Comitato Francese di Bioetica a proposito: “I corpi rappresentati sono stati degli individui. La loro esibizione (e la loro reificazione) costituisce un attentato alla loro identità e dunque alla loro dignità?” Il secondo livello è quello del voyeurismo, che oggi dilaga sulla televisione in tanti telefilm in cui vengono realisticamente e cruentamente mimate autopsie, espianti, sezioni di cadaveri. Quale molla spinge l’uomo ad interessarsi dei visceri di un morto, ma anche a prender piacere dalla visione di una mostra di strumenti di tortura (ce ne sono molte in Italia)?
Certamente il gusto del sangue è sempre stato presente nelle favole e nei miti, dall’Orco che decapita i figli in “Pollicino”, ad Achille che dissacra il corpo di Ettore. Ma era chiaro che erano favole. Ora si fa un passo ulteriore, con la differenza che, forse scontenti della propria realtà, si cerca di entrare virtualmente in una realtà, in un corpo altrui altrui, di penetrarne le viscere, in modo realistico, senza tener presente - come nelle fiction TV- il rispetto che si deve ad un morto, al morto in carne ed ossa e a quello virtuale che, da che mondo è mondo, pietà laica e precetto religioso impongono di lasciar riposare in pace se non di onorare.
La mostra arriverà in Italia? E ci troverà in fila a pagare per vedere i 17 giovani ragazzi cinesi esposti alla nostra curiosità malinconica e avida? La risposta sta alla nostra sensibilità e al nostro amore per la sacralità della vita, e della morte.

12 apr 2009

20 SECONDI

20 secondi cancellano ogni cosa.
Il progetto sognato e custodito nel cuore, la faticosa realizzazione di una famiglia, di una casa. Il lavoro sudato, i soldi risparmiati. I figli tirati su con grandi sacrifici, paure, speranze.
20 secondi, e tutto è finito.
20 secondi, e solo macerie sulle spalle e sull'anima.
Un terremoto ti porta via tutto. Ti sentivi immortale, forte, potente, felice, realizzato.
20 secondi, e tutto è cambiato. Non hai più niente.
E' la nostra fragilissima condizione umana. "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie" cantava un poeta italiano per sottolineare la nostra caducità nel mondo. Questa è la nostra realtà: un soffio e torniamo nella polvere.
Prendere coscienza di questa verità non deve però spaventarci nè deve togliere significato alla nostra preziosa vita.
Oggi, Pasqua, abbiamo la risposta. Cristo è risorto e noi insieme a Lui nella misura in cui gli siamo vicini.
Mi fa ridere ed anche un po' piangere vedere come certi uomini e donne, scienziati e politici, medici e biologi giocano a fare dio con la vita e la morte: ammazzano bambini con l'aborto scegliendo chi è degno di vivere e chi non lo è; ammazzano persone umane nella produzione artificiale di figli, quando scelgono quali fare nascere e quali fratellini lasciare in congelatore; decidono a chi staccare la spina sostituendosi all'Unico Autore della vita. Questi piccoli uomini giocano a fare dio ma vengono spazzati via in un solo secondo da una qualsiasi calamità naturale.
Mi fanno ridere ed un po' piangere anche quegli uomini che si affannano una vita intera, in modo onesto ma spesso disonesto, ad accumulare ricchezze, proprietà, case, come se fossero le uniche cose che contano e le uniche cose importanti da lasciare ai loro figli. Ma tutto viene spazzato via in un solo secondo da una qualsiasi calamità naturale.
Gesù Cristo è la nostra unica speranza. Una speranza che si fonda su un fatto storico realmente accaduto: Cristo risorto perchè ciascuno di noi possa risuscitare insieme a Lui se lo vuole.
Viviamo in questo tempo limitato, in una natura meravigliosa ma a volte assassina, ma noi non apparteniamo a questa vita ma siamo destinati alla gloria, alla vita eterna.
E allora preoccupiamoci solo di accumulare tesori in cielo, tesori spirituali per noi e per i nostri figli.
La speranza di Pasqua è per tutti, e soprattutto per coloro che in 20 secondi hanno perso tutto.

8 apr 2009

FORZA ITALIA

Sono letteralmente commosso. Ho visto l'amore scorrere nelle vene degli italiani, e non solo degli italiani. Ho visto famiglie distrutte nella salute, sotto le macerie di una vita in frantumi, che hanno perso tutto, ma che sono ancora sorrette dall'amore di tanti fratelli italiani. Sono rimasto stupito, meravigliato e commosso fino alle lagrime. Ho visto partire dal Veneto, dal friuli, da tutta Italia colonne di aiuti umanitari in soccorso del mio Abruzzo. Ho visto scavare a mani nude fra cumuli di macerie ore ed ore, senza sosta, con coraggio, con abnegazione. Grazie!
Ridate speranza e fiducia nel genere umano. Siete un esempio per i giovani e un prezioso sostegno per chi soffre. Mi sono sentito parte di un corpo unico, di un corpo solo. La mia ITALIA! Quella che voglio, quella che sogno!
Prego per i miei fratelli aquilani ed abruzzesi che non ce l'hanno fatta. Prego per le loro famiglire. Prego per i vecchi che hanno perso la casa e gli affetti di una vita. Prego perchè il Signore prepari per loro una autentica Pasqua di Risurrezione.
Eprego infine per tutti quelli che si credono dio ma che con un soffio solo si ritrovano ad essere polvere.

2 apr 2009

UNA LEZIONE DI STORIA

Si tratta di una questione che merita di essere sempre vagliata, approfondita, compresa, discussa. Il fatto che una madre ponga fine, con l’intervento del medico e con l’avallo della legge, alla vita del figlio che porta nel proprio seno, non potrà mai diventare una questione banale, e neanche «normale». Al contrario, se non si vuole sfuggire da questo dramma e se teniamo presente la sua imponente dimensione sociale nei nostri giorni, dovremmo riconoscere che si tratta di una vera «questione morale».
Non riduciamo questo concetto al dibattito politico sulla corruzione all’interno di qualche partito. Ci sono problemi che si dimostrano molto più «questioni» e molto più profondamente e drammaticamente «morali». Nelson Mandela ebbe a dire che la situazione conflittiva nei territori di Gaza è diventata «la questione morale del nostro tempo». Se si dovesse fare una classifica, penserei che la vera questione morale del nostro tempo, in Italia e in molti altri paesi, è piuttosto quella dell’aborto. Milioni di donne nel mondo decidono di porre fine alla vita che cresce nel loro grembo; milioni di piccoli esseri umani vengono eliminati prima di poter vedere la luce del sole; milioni di donne e di famiglie soffrono di questa profonda lacerazione.
Una questione nella quale è in gioco il modo in cui noi, essere umani, vogliamo trattare altri esseri umani. Una questione nella quale, inoltre, è in gioco la nostra stessa concezione dell’essere umano e della sua dignità universale. In fondo, si tratta di una questione morale simile ad alcune tra le più dense e profonde che sono state affrontate dall’umanità lungo i secoli. Davanti a questioni simili non basta far finta di niente e tirare avanti, guardando altrove.
A questo proposito, può essere molto istruttivo richiamare la questione morale della schiavitù come si presentò nel dibattito sociale negli Stati Uniti due secoli or sono.
Nel 1857, la Corte Suprema americana emanò una sentenza (nel caso Dred Scott vs Sanford) che negava ai neri i diritti riconosciuti dalla Costituzione ai cittadini americani. Il testo della sentenza spiega che coloro che scrissero la Costituzione «non consideravano i negri portati come schiavi dall’Africa e i loro discendenti come cittadini, dato che all’epoca venivano ritenuti una classe di esseri subordinata ed inferiore, che era stata soggiogata dalla razza dominante, e, emancipati o meno, rimanevano soggetti alla sua autorità, e non avevano diritti e privilegi se non quelli che coloro che avevano il potere e il governo volessero offrire loro».
Potrebbe sembrare che la questione era stata definitivamente chiusa, niente meno che da una sentenza della Corte Suprema in un paese democratico nel quale le sentenze dettano legge. Quella sentenza, però, non risolse il dibattito sociale sulla schiavitù. L’anno seguente, infatti, ci furono i famosi sette dibattiti pubblici nello Stato dell’Illinois, in vista delle elezioni per il congresso americano, tra Stephen Douglas e Abraham Lincoln. Il tema centrale fu appunto la schiavitù[2]. Non la possibilità o meno di abolirla totalmente. La questione dibattuta era più semplicemente se si dovesse permettere l’estensione legale della schiavitù negli Stati del Nord, nei quali non era ancora stata legalizzata. Douglas accusò ripetutamente Lincoln di essere «abolizionista», grave insulto all’epoca, che indicava una persona che pretendeva di abolire totalmente la schiavitù. E la prova era che si era permesso di affermare pubblicamente che la Dichiarazione d’Indipendenza americana si applicava tanto ai neri come ai bianchi (affermazione che contrastava evidentemente con la sentenza della Corte Suprema appena citata). Lincoln accusava Douglas di voler «nazionalizzare la schiavitù», estendendola agli Stati del Nord.
L’argomentazione di Douglas è quanto mai significativa, anche per i nostri tempi: sono i cittadini a dover decidere democraticamente se vogliono o meno legalizzare la schiavitù nel proprio stato. Era la cosiddetta dottrina della Popular Sovereignty (Sovranità Popolare). In fondo, la schiavitù era legale in molti stati (era un fatto compiuto); e se i cittadini di altri stati la volevano, non si vedeva come qualcuno potesse opporsi a questa volontà democraticamente espressa. Tutti gli stati, dunque, dovevano avere il potere di escludere dall’ordine dei diritti le «razze inferiori».
Lincoln non argomentò a favore della completa eguaglianza sociale, ma affermò che Douglas ignorava l’umanità basica dei neri e il fatto che gli schiavi avessero lo stesso diritto alla libertà. Disse: «Concordo con il giudice Douglas sul fatto che egli [il negro] non è uguale a me in molti aspetti – certamente non nel colore, e forse neanche nella capacità morale o intellettuale. Ma, nel diritto a mangiare, senza il permesso di nessuno, il pane che guadagna con le proprie mani, lui è uguale a me e uguale al giudice Douglas, e uguale ad ogni uomo vivente».
E poi, caricò con forti espressioni, dicendo che non poteva non odiare lo zelo per diffondere la schiavitù: «Lo odio a causa della mostruosa ingiustizia della schiavitù stessa». Si chiedeva anche: «Se si fanno eccezioni alla Dichiarazione d’Indipendenza che dichiara il principio che tutti gli uomini sono uguali, dove si finirà? Se un uomo dice che non si applica al negro, perché non potrà dire un’altro che non si applica a un altro uomo?».
Fece anche un’affermazione importante sul futuro del dibattito: la crisi e il conflitto saranno superati solamente quando la schiavitù verrà posta «nella via della definitiva estinzione». Ebbe anche a dire che la schiavitù doveva essere considerata un male e si doveva impedire la sua espansione: «Questo è il vero problema. Questo è il problema che persisterà nel nostro paese, quando le lingue del giudice Douglas e la mia siano in silenzio. È l’eterna lotta tra questi due principi – bene e male – nel mondo intero».
Le elezioni per l’Assemblea Generale dello Stato furono vinte quell’anno dal partito di Stephen Douglas. Evidentemente, molti la pensavano come lui. Ma poi, nella corsa per la presidenza della nazione, Douglas fu sconfitto da Lincoln. La grave questione morale della schiavitù non si calmò; anzi fu, come sappiamo, uno dei fattori principali dello scoppio della terribile Guerra Civile americana. Solo dopo quella guerra, vinta dai «nordisti» contrari all’estensione della schiavitù, e per l’insistenza del presidente Lincoln, si arrivò alla sua abolizione, con il XIIIº emendamento della Costituzione, nel 1865. Solo in quel momento l’aspro dibattito sociale si avviò verso la fine, quando, come aveva detto Lincoln, la schiavitù stessa fu posta «nella via della definitiva estinzione».
Riflettiamo, dunque. Analizziamo, esaminiamo, meditiamo. Discutiamone. Non c’è sentenza giudiziaria, né piccola né «suprema», non c’è legge né risoluzione internazionale che possa cancellare la questione morale del nostro tempo. La coscienza umana si può oscurare ma non muore mai.

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